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Nessuno ha perso il lavoro per colpa dell’AI. Almeno finora.

Da due anni si parla di rivoluzione del lavoro causata dall’intelligenza artificiale. Le previsioni più drastiche hanno evocato milioni di posti a rischio, professioni destinate a sparire e competenze improvvisamente obsolete. Eppure, i numeri raccontano una storia diversa. Uno studio del Budget Lab di Yale pubblicato nell’ottobre 2025 mostra che, nei trentatré mesi successivi al lancio di ChatGPT, il mercato del lavoro statunitense è rimasto sorprendentemente stabile. Non si osservano variazioni significative nei livelli di occupazione dei settori più “esposti” all’AI. Gli autori parlano di una fase di stabilità strutturale, in cui la tecnologia modifica i processi e la produttività, ma non ancora la distribuzione complessiva del lavoro. Per l’Europa, e in particolare per l’Italia, la fotografia è ancora più cauta. Secondo Eurostat, soltanto l’8,2% delle imprese italiane con almeno dieci addetti utilizza tecnologie di intelligenza artificiale, contro una media europea del 13,5%. Il dato riguarda l’AI nel suo complesso, non solo quella generativa, ma è sufficiente a mostrare quanto il divario digitale pesi più dell’automazione stessa.

Cosa mostrano i dati

Il rapporto di Yale invita a evitare interpretazioni apocalittiche. L’impatto dell’AI sul lavoro appare più lento, graduale e disomogeneo di quanto si immaginasse. Le occupazioni ad alta esposizione non hanno subito tagli visibili, mentre emergono segnali di trasformazione interna dei ruoli e delle competenze. Anche il McKinsey State of AI 2025 conferma che la diffusione dell’intelligenza artificiale cresce rapidamente, ma la creazione di valore resta concentrata in un numero limitato di aziende, spesso quelle con infrastrutture dati consolidate e processi già digitalizzati. Il punto non è tanto se l’AI sostituirà le persone, ma chi sarà in grado di integrarla con metodo nei flussi di lavoro.

L’effetto invisibile

L’AI non ha ridotto il numero complessivo dei lavoratori, ma sta riscrivendo la natura del lavoro stesso. Le attività più ripetitive si comprimono, mentre crescono le mansioni di analisi, di coordinamento e di interazione con i sistemi generativi. L’effetto è difficile da misurare, perché non incide solo sui tassi di occupazione, ma sulla struttura delle competenze e sui tempi delle decisioni. In Italia la questione non è la perdita di posti, ma la difficoltà di diffondere competenze digitali adeguate. L’adozione limitata dell’AI si intreccia con una produttività stagnante e con un tessuto di piccole e medie imprese che fatica a integrare nuovi strumenti nei processi operativi. La trasformazione, più che assente, è semplicemente invisibile.

Cosa può fare chi decide

Per i manager e i decisori pubblici, la lezione è duplice. Da un lato, non serve inseguire le previsioni estreme sul lavoro che scompare. Dall’altro, ignorare i cambiamenti qualitativi significherebbe perdere la fase più strategica della trasformazione. Monitorare l’impatto dell’AI non significa contare quanti ruoli spariscono, ma analizzare come cambiano le competenze, i tempi di esecuzione e la qualità dei dati utilizzati. È su questi elementi che si misura la capacità di un’organizzazione di assorbire l’innovazione e tradurla in produttività reale.

Conclusione

Il rumore che circonda l’intelligenza artificiale è più forte del cambiamento che sta realmente producendo. Ma questo non significa che il cambiamento non esista. Sta agendo in modo silenzioso, ridefinendo le relazioni tra persone, processi e dati. L’AI non ha ancora tolto il lavoro a nessuno. Sta però cambiando il modo in cui il lavoro viene pensato, misurato e distribuito. E in questa fase di transizione, la differenza tra chi resta fermo e chi avanza non dipenderà dal numero di algoritmi adottati, ma dalla qualità dei dati e dalla capacità di leggerli con metodo.