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L’era dei vibe coders è finita. O forse non è mai iniziata davvero.
Negli ultimi mesi sono circolati articoli che celebrano la nascita di una nuova figura professionale. Secondo questa narrativa i vibe coders sarebbero i nuovi sviluppatori, persone capaci di costruire applicazioni complete usando AI generativa, piattaforme come Lovable e interfacce conversazionali che scrivono codice al posto loro. Per molti è la democratizzazione dello sviluppo software. Per altri è la fine dei team tecnici come li abbiamo conosciuti. È una storia suggestiva, ma vista da vicino è molto meno sostenibile di quanto sembri. Prima di decretare rivoluzioni conviene chiedersi cosa fanno davvero i vibe coders e soprattutto quali condizioni devono esistere affinché il loro contributo generi valore reale, invece che illusioni di efficienza.
Da dove arrivano i vibe coders
La prima generazione di tool no code e AI-powered ha dato l’impressione che bastasse una buona idea e un po’ di intuizione linguistica per costruire prodotti funzionanti. Si chiedeva all’AI di generare un’applicazione e in pochi minuti compariva qualcosa che sembrava pronta all’uso. È in questo spazio intermedio, tra la promessa e la realtà, che i vibe coders hanno trovato il loro ruolo. Operano in quella fascia grigia in cui si mescolano creatività, intuito e un po’ di comprensione tecnica, quanto basta per trasformare l’output di un modello in una demo convincente. Il punto però è importante perché quella demo non è un prodotto, è un prototipo. Funziona oggi ed è utile come esplorazione, non come infrastruttura stabile.
La narrativa ha semplificato troppo
Molti articoli sui vibe coders partono da un presupposto implicito che però non regge alla prova dei fatti. Presuppongono che generare codice equivalga a costruire software e che costruire software equivalga ad avere un sistema scalabile, sicuro, manutenibile e integrabile. Ma la disciplina ingegneristica che permette a un’applicazione di reggere nel tempo non è scritta nelle righe di codice, è scritta nelle scelte architetturali, nella gestione delle dipendenze, nella sicurezza, nei test, nell’integrazione con sistemi esterni, nella qualità delle basi dati. Nessuna AI al momento sostituisce questi elementi, e infatti nessun senior dev considera il codice generato un prodotto finito. Dire che un vibe coder “sviluppa software” è come dire che produrre una bella presentazione equivale a progettare il business che rappresenta.
Dove i vibe coders funzionano davvero
Il punto non è sminuirli, i vibe coders funzionano, ma funzionano in un contesto preciso ovvero quando l’obiettivo è esplorare velocemente una soluzione o testare un’ipotesi di prodotto. Funzionano quando i team devono validare un’idea senza impegnare gli sviluppatori senior su prototipi che potrebbero non avere seguito. Funzionano quando serve una prima versione grezza di un flusso, utile per capire se un processo ha senso oppure no. In questo spazio di validazione con MVP i vibe coders rappresentano un vantaggio perché accorciano le distanze tra idea e test e si inseriscono bene in un approccio lean. Permettono di iterare più in fretta, ridurre il costo degli errori e rendere più economico scartare le soluzioni sbagliate. Nelle aziende che ragionano con sperimentazioni controllate questo contributo è concreto. Ma trasformare questa utilità in uno status di “nuovi sviluppatori” significa confondere la velocità con la profondità, due elementi che non sono intercambiabili.
Dove si fermano i vibe coders
Il limite emerge nel momento in cui un prototipo deve diventare un prodotto vero. Da quel punto in avanti servono competenze diverse. Servono sviluppatori che conoscano architetture, sistemi, sicurezza, integrazioni. Servono scelte sul ciclo di vita del codice, sulle responsabilità, sulla gestione del debito tecnico. Servono strumenti di monitoraggio e standard condivisi. Tutte attività che non possono essere gestite a colpi di prompt, perché non riguardano la generazione del codice ma la sua sopravvivenza. Soprattutto servono metriche perché un’azienda non valuta una demo e basta, valuta affidabilità, costi, scalabilità, manutenibilità, rischio. Se i risultati sono misurati, si vede subito dove il vibe coder aggiunge valore e dove invece genera complessità futura.
Dove entrano in gioco le competenze trasversali
Qui il lavoro di David Epstein in Range diventa utile per leggere il fenomeno senza ideologie. Epstein non parla di AI, ma dimostra che nei sistemi complessi vincono le persone capaci di collegare discipline, interpretare contesti, fare analogie e lavorare con modelli mentali ampi. È esattamente ciò che distingue un vibe coder efficace da uno improvvisato. Un vibe coder che conosce il dominio, capisce i vincoli, sa leggere dati, comprende i processi e ha un minimo di sensibilità tecnica può portare un valore reale. Non perché sostituisce uno sviluppatore, ma perché riduce il costo dell’esplorazione. In altre parole può sopperire alla mancanza di competenze tecniche profonde grazie a una combinazione di intuito, esperienza e capacità trasversali.
Il nodo che decide tutto
L’impatto reale dei vibe coders non dipende dalla tecnologia. Dipende dal contesto.
In aziende mature con metriche chiare, dati affidabili e processi di sviluppo solidi diventano acceleratori utili. In aziende immature, prive di struttura e governance, rischiano di produrre sistemi fragili che nessuno sa mantenere. Non è una questione di bene o male ma di equilibrio operativo che va misurato, non raccontato. Questo è il punto che spesso manca nei discorsi entusiasti dove il valore dei vibe coders non si valuta guardando ciò che costruiscono, ma si valuta guardando ciò che sopravvive quando smettono di costruirlo.
Conclusione
L’AI generativa non ha creato una nuova categoria di sviluppatori. Ha creato un nuovo modo per esplorare idee e trasformarle in prototipi rapidi. I vibe coders hanno un ruolo reale, ma non è quello che le narrazioni sui social suggeriscono. Non sostituiscono i senior developer e non rimpiazzano l’ingegneria del software. Occupano lo spazio tra intuizione e struttura, e in quello spazio possono essere preziosi se misurati con i parametri giusti. La vera domanda non è se i vibe coders dureranno o se le aziende riusciranno a integrarli stabilmente nei propri processi. La domanda è un’altra e riguarda la maturità dei sistemi in cui l’AI viene inserita. Se il contesto è solido, i vibe coders accelerano l’innovazione. Se il contesto è fragile, amplificano il debito tecnico. È qui che si misura la differenza tra un entusiasmo passeggero e un valore reale. Non nel prompt, non nella demo, ma nella capacità delle organizzazioni di costruire basi che reggono il tempo.