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Bias invisibili: quando gli algoritmi toccano il mondo del lavoro

L’intelligenza artificiale è ormai integrata in molti aspetti della gestione aziendale, dalle assunzioni alle valutazioni delle performance, fino alla gestione dei licenziamenti. Ma dietro l’apparente neutralità dei numeri si nasconde un rischio: il bias algoritmico. Questi pregiudizi, spesso radicati nei dati storici o nelle logiche di programmazione, non solo perpetuano discriminazioni, ma influenzano profondamente carriere, decisioni strategiche e reputazioni aziendali.

Il caso delle assunzioni: imparare dai dati o perpetuare i pregiudizi?

In Europa, diversi casi recenti hanno evidenziato come i sistemi di recruiting basati su AI possano discriminare in modo sistematico. Un esempio concreto arriva dalla Germania, dove un importante gruppo manifatturiero ha scoperto che il proprio software di selezione favoriva candidati maschi per ruoli tecnici. Questo accadeva perché l’algoritmo era stato addestrato su dati storici che riflettevano uno squilibrio di genere preesistente. Candidature femminili altamente qualificate venivano sistematicamente scartate per ragioni apparentemente oggettive, ma in realtà viziate.
Un caso italiano altrettanto significativo riguarda una società finanziaria che, durante un audit interno, ha rilevato che il proprio sistema di intelligenza artificiale escludeva automaticamente curriculum provenienti da regioni del sud Italia. Questo bias, derivante da correlazioni inappropriate tra località e tassi di occupazione, ha portato l’azienda a rivedere l’algoritmo, bilanciando meglio i criteri di selezione per garantire pari opportunità.

Valutazioni delle performance: innovazione o omologazione?

Gli algoritmi utilizzati per valutare le performance dei dipendenti, pur promettendo oggettività, spesso premiano chi si conforma agli schemi predefiniti, penalizzando l’innovazione e la creatività. Un’azienda francese del settore retail, ad esempio, ha notato che il suo sistema di analisi favoriva manager orientati esclusivamente agli obiettivi trimestrali, ignorando i risultati di lungo termine o le iniziative di collaborazione. Questo approccio ha portato a una cultura aziendale miope, costringendo l’organizzazione a integrare nuove metriche capaci di valorizzare anche la capacità di pensiero strategico.

Licenziamenti gestiti dall’AI: l’effetto boomerang

L’uso dell’AI nei processi di licenziamento può avere effetti collaterali gravi. XPO Logistics, leader europeo nella logistica, ha utilizzato un sistema per identificare i dipendenti meno produttivi, basandosi esclusivamente su metriche di produttività oraria. Tuttavia, ciò ha portato al licenziamento di lavoratori chiave impegnati in attività complesse e difficili da misurare. Il risultato? Un aumento dei costi e una crisi interna per riqualificare il personale.
In Italia, un call center ha vissuto una situazione simile. L’AI, incaricata di ottimizzare i turni, ha penalizzato lavoratori più esperti, considerati troppo costosi rispetto ai nuovi assunti. Questo ha causato un peggioramento del servizio clienti e un’impennata nei reclami, spingendo l’azienda a rivalutare il sistema.

Sistemi HR e bias demografici

Anche i sistemi AI utilizzati per prevedere il turnover possono rivelarsi problematici. Un’azienda tech di Milano ha scoperto che il suo algoritmo etichettava come “a rischio di abbandono” principalmente donne in età fertile, basandosi su presunzioni legate alla maternità. Questo ha generato tensioni interne e accuse di discriminazione. Dopo un’indagine, l’azienda ha coinvolto esperti di etica e diversità per rimuovere tali correlazioni improprie e migliorare il sistema.

Conclusione

L’uso dell’intelligenza artificiale nelle decisioni aziendali non è intrinsecamente negativo, ma richiede una gestione attenta e consapevole. I dati non sono mai neutrali: riflettono la storia, i pregiudizi e le decisioni di chi li ha generati. Ma c’è un altro aspetto cruciale da considerare: non tutti i set di dati squilibrati sono necessariamente sbagliati o moralmente ingiusti. I dati rappresentano spesso una realtà complessa che non corrisponde sempre alla nostra visione ideale. Correggere questi squilibri per rendere i dati più "equilibrati" può introdurre nuovi problemi, minando l’affidabilità o alterando la loro interpretazione.
Qui entra in gioco il concetto di framing, ben spiegato da Daniel Kahneman. Il modo in cui i dati vengono presentati e contestualizzati ha un impatto significativo sulle decisioni che ne derivano. Non è solo una questione di bilanciare i numeri, ma di capire come questi influenzino la percezione e le scelte aziendali. La vera sfida non è eliminare il bias a tutti i costi, ma interpretare i dati con consapevolezza, considerando il contesto e le implicazioni delle decisioni prese.
Comprendere e gestire gli squilibri nei set di dati, senza distorcerli o ignorarli, permette di prendere decisioni più solide e informate. Non si tratta di eliminare i bias a tutti i costi, ma di imparare a interpretarli, sfruttando il contesto per massimizzare l’efficienza e minimizzare i rischi. Nel panorama attuale, chi saprà bilanciare etica e pragmatismo avrà le carte in regola per dettare il passo sul mercato.