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Basta chiamarla trasformazione digitale se non sai gestire i dati. Ecco perché il 70% dei progetti fallisce

Negli ultimi anni, molte aziende si vantano di essere “digitalmente trasformate” solo perché hanno adottato un nuovo CRM in cloud, un chatbot o qualche tool di automazione. In realtà, i numeri raccontano un’altra storia: ben 7 progetti di digital transformation su 10 non raggiungono gli obiettivi; uno studio McKinsey (2018) indica che solo il 30% di queste iniziative produce i risultati sperati; e Forbes (2019) parla addirittura di un 70% di fallimenti o performance deludenti.
Il problema? Spesso non è la tecnologia a mancare, ma la capacità di gestire i dati in modo sistematico e di accompagnare ogni innovazione con un vero cambio di mentalità e processi.

I motivi del fallimento. Non è (solo) la tecnologia

Quando un’azienda mira alla “trasformazione digitale”, tende a investire in software e infrastrutture, ma ignora i fattori che fanno davvero la differenza, come processi solidi, governance dei dati e una cultura interna orientata alla collaborazione. Se alla base mancano dati puliti, aggiornati e coerenti, nessuna piattaforma potrà realmente generare valore duraturo.

  • Data governance assente
    Non esiste un inventario esaustivo dei dati, né regole su chi li gestisce o come verificarne la qualità. Senza una strategia condivisa, ogni reparto finisce per creare copie locali, CSV esportati qua e là e integrazioni “fai-da-te”.

  • Shadow data e compliance
    CRM, advertising, e-commerce e automazione marketing generano copie di informazioni che sfuggono al controllo. Si rischiano incongruenze, consensi non aggiornati e, nei casi peggiori, possibili violazioni di privacy se i dati finiscono su canali non protetti.

  • Cultura aziendale non adeguata
    Il personale non riceve formazione, basata su una chiara strategia di data governance, su come usare e interpretare i dati o impostare KPI chiare e coerenti. Così si crea un divario trai chi progetta (board/management) il “futuro digitale” e chi rimane ancorato alle vecchie abitudini (operations).

I segnali di una trasformazione “farlocca”

Se l’IT mette a disposizione dell’azienda un tool ma ogni reparto continua a usare il suo Excel, se i KPI fanno fatica ad emergere e si contraddicono a ogni riunione di allineamento, se l’adozione di un CRM non agevola minimamente i processi di vendita, siamo davanti al tipico “teatrino della trasformazione digitale” piuttosto che a una vera evoluzione.

  • Obiettivi vaghi
    “Abbiamo più tool digitali!” non vuol dire nulla se non ci sono metriche specifiche e risultati tangibili sul piano di azioni, fatturato, costi, customer experience, etc.

  • Piattaforme isolate
    Ogni reparto adotta il suo CRM o un software di automazione, ma non esiste un flusso condiviso. Le persone continuano a duplicare i dati e a scaricare e spedire file CSV manuali, aprendo la porta a errori o a data leak.

  • Progetti che “muoiono”
    Superato l’entusiasmo iniziale, le persone tornano a Excel e a procedure manuali. I nuovi sistemi restano sottoutilizzati, sprecando tempo, risorse economiche ed erodendo la fiducia in tutto il percorso di evoluzione.

Dati e persone prima di tutto. Le chiavi per una svolta reale

Se la tecnologia è solo l’ultimo tassello, quali sono gli aspetti cruciali su cui investire?

  1. Definire una Data Strategy concreta
    Prima ancora di scegliere tool miracolosi, occorre mappare i flussi di dati, chiarire chi è il “proprietario” di ogni dataset (marketing, sales, IT, compliance), stabilire regole di pulizia e aggiornamento (ETL/ELT), e fissare policy di sicurezza (pseudonimizzazione, cifratura, retention). In quest’ottica, esistono piattaforme che possono monitorare e proteggere il flusso dei dati, o soluzioni di automazione in grado di semplificare i processi ripetitivi, evitando lo “shadow data” creato dai passaggi manuali.

  2. Investire in competenze e formazione continua
    Non basta inserire un webinar formale, ma servono workshop pratici “hands-on”, con esempi reali su come interpretare i KPI e prendere decisioni data-driven. Chi lavora sul campo deve sentirsi parte del percorso, non soggetto passivo. Un consulente esperto può guidare nel creare roadmap di crescita delle competenze, integrando aspetti di compliance e best practice operative.

  3. Procedere a piccoli passi con risultati tangibili
    Il processo trasformativo può fallire (molto probabilmente) se la cultura interna non è pronta. Meglio sperimentare su un singolo processo (ad esempio, l’onboarding dei nuovi clienti), verificarne i benefici (tempo risparmiato, errori ridotti, soddisfazione utenti) e quindi estendere ad altre aree. Così, l’adozione di strumenti come CRM, RPA o marketing automation diventa graduale e sostenibile.

  4. Monitorare costantemente dati e processi
    Ogni iniziativa deve avere KPI chiari e un sistema di reportistica che segnali colli di bottiglia o incongruenze. Se i dati non quadrano, meglio accorgersene subito e capire dove intervenire, anziché scoprire dopo mesi che un workflow automatizzato stava “sporcando” il CRM con duplicati o record errati.

Esempi di successo (quando la trasformazione è vera)

1. Una PMI manifatturiera italiana desiderava passare da un flusso ibrido (cartaceo + Excel) a una gestione digitale, ma temeva di dover rivoluzionare tutto. Ha iniziato concentrandosi sui dati:

  • Ha creato un unico repository (col supporto di un consulente) per le anagrafiche di clienti, fornitori e materiali, integrando ERP e CRM.

  • Ha adottato una soluzione di automazione, in grado di orche­strare task ripetitivi (inserimento ordini, generazione fatture, avvisi di stock in esaurimento) senza dover “smontare” i processi esistenti.

  • Ha definito regole chiare di aggiornamento e revisione dei dati (policy di pulizia).

Risultato:

  • Riduzione degli errori di inserimento del 60%, nessun doppione tra ERP e CRM, tempo di elaborazione ordini -40%.

  • Personale più motivato, perché gli operatori non si limitano a digitare dati ma monitorano gli alert e migliorano i flussi (sentendosi parte integrante del miglioramento).

In pochi mesi, l’azienda ha visto che il vero salto non stava nell’acquistare “un mega software”, ma nel creare un corridoio dati fluido e una serie di automazioni che hanno reso il lavoro più semplice e sicuro.

2. Un’azienda specializzata in epilazione laser e skincare avanzata gestiva diversi centri estetici su base regionale, con formula diretta o in franchising. Il team marketing generava lead attraverso social ads, form online e campagne Google, ma la gestione dei contatti era frammentata:

  • Ogni centro fissava gli appuntamenti in maniera non strutturata;

  • Il contact center tentava di coordinare richiami e solleciti senza una visione chiara dello storico;

  • Alcuni lead cadevano nel vuoto perché l’integrazione tra online e telefono era inesistente.

Invece di introdurre un “mega software” calato dall’alto, il brand ha deciso di concentrarsi su processi e dati:

  1. Lead management unificato
    Hanno impostato un CRM centralizzato per convogliare i contatti digitali (moduli online, chat, social ads) e quelli telefonici, assegnando a ciascun lead una “scheda cliente” univoca. Così, se il contact center telefona per fissare un appuntamento, il sistema traccia l’esito (prenotato, da richiamare, non interessato), evitando duplicazioni ed effettuando una chiara attribuzione.

  2. Automazione e workflow nel contact center
    Grazie a una soluzione di automazione, quando arriva un nuovo lead da Facebook Ads o dal form sul sito, il sistema genera una task per l’operatore del contact center, che riceve i dati necessari e avvia la chiamata con script personalizzati. Se l’appuntamento viene fissato, il software aggiorna in tempo reale l’agenda del centro estetico di riferimento. Se il lead non risponde, scatta un promemoria per un secondo tentativo.

  3. Monitoraggio continuo e compliance
    Ogni passaggio viene loggato, con alert se trascorrono troppi giorni senza esito. Inoltre, la piattaforma controlla i consensi privacy raccolti online (GDPR) e segnala eventuali incongruenze (ad esempio, se l’utente aveva revocato l’autorizzazione al contatto telefonico). Questo evita campagne massive su contatti non validi e garantisce un uso sicuro dei dati.

Risultato

  • Riduzione del 20% di lead “persi” per mancato recall, perché il sistema non si affida più a note manuali o file Excel, ma a un workflow ben definito.

  • -30% di no-show agli appuntamenti, grazie a reminder automatici via SMS o email, impostati centralmente dal contact center.

  • Coerenza nei dati: sia il marketing sia i centri estetici condividono un unico “cruscotto”, sapendo quanti lead sono in pipeline, quanti hanno prenotato e quanti trattamenti sono stati effettivamente erogati con chiara attribuzione dei risultati ai budget delle varie campagne attive.

In sostanza, la “trasformazione” non ha riguardato solo l’adozione di nuovi strumenti, ma una riprogettazione dei processi tra digital e telefono, garantendo che ogni contatto fosse gestito con la massima efficienza e sicurezza. L’azienda, dunque, ha creato un sistema di dati unificato e un contact center proattivo, trasformando l’esperienza del cliente (e del personale) in un vero percorso data-driven.

Non chiamatela “trasformazione digitale” se non passate dai dati

Le ricerche di McKinsey o Forbes ci raccontano di un 70% (o più) di fallimenti, che ci svelano che le storie di vera innovazione di successo non nascono dall’investimento su costosi software blasonati e costosissimi processi di system integration, ma da un cambio strutturale sul piano del patrimonio informativo e delle competenze.
Prima di investire in tool “magici”, è essenziale costruire una data strategy, formare chi dovrà usare (e validare) i dati, impostare un monitoraggio costante ed evitare di creare nuovi silos. Solo così la “trasformazione digitale” smette di essere uno slogan e diventa un percorso concreto di evoluzione competitiva.