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L’AI non scrive solo testi, aiuta a pensare
Il 15 settembre ho partecipato all’AI Salon Roma 2025, ospitato presso la John Cabot University – Guarini Campus e organizzato in collaborazione con l’Institute for Entrepreneurship della JCU, con il supporto di Zest Group e all’interno della Rome Future Week. Al centro della discussione c’era un tema che va oltre la tecnologia, ovvero come cambierà la mente umana interagendo con l’AI. Non è un interrogativo astratto, perché i dati mostrano che l’impatto è già concreto.
Cosa dicono i dati
Due ricerche recenti, una di Anthropic su milioni di conversazioni con Claude, l’altra di OpenAI e Harvard su oltre un milione di conversazioni con ChatGPT, hanno analizzato come le persone usano davvero i modelli generativi. Il risultato è netto. Le skill più richieste non riguardano lavori esecutivi o manuali, ma compiti cognitivi complessi come ad esempio pensiero critico, interpretazione delle informazioni, problem solving, creatività, dare e ricevere consigli oltre che la scrittura. In altre parole, l’AI non è soprattutto uno strumento di automazione, ma sta diventando sempre più un assistente cognitivo.
Perché è rilevante in Italia e in Europa
Nel dibattito italiano si insiste spesso sul rischio di sostituzione dei lavori a bassa qualificazione. Ma la realtà, confermata dai dati, è diversa. L’AI sta già cambiando il lavoro dei professionisti più qualificati. Per fare alcuni esempi gli avvocati testano argomentazioni, manager valutano scenari di business, marketer esplorano alternative a strategie di comunicazione, ricercatori confrontano ipotesi. La frattura non è tra chi ha un lavoro manuale e chi no, ma tra chi integra l’AI nei propri processi congitivi e chi continua a usarla come un motore di ricerca un po’ più evoluto. In Italia questo divario rischia di essere ancora più marcato. La diffusione di competenze digitali è inferiore alla media europea e l’adozione di strumenti avanzati procede a velocità ridotta. Questo significa che, se da un lato pochi pionieri stanno già sperimentando l’AI come partner strategico, dall’altro molte organizzazioni rischiano di accumulare un ritardo che diventerà sempre più difficile colmare.
Cosa cambia per le imprese
Per le aziende europee la lezione è chiara. Non basta automatizzare processi di back office o attività ripetitive. Serve ripensare l’organizzazione dei ruoli strategici.
Un middle manager che non sa usare l’AI per analizzare scenari rischia di diventare irrilevante quanto un impiegato che non sapeva usare Excel vent’anni fa;
Un team che non integra l’AI nei processi decisionali accumula un ritardo competitivo difficile da recuperare.
Implicazioni strategiche
Le conseguenze non sono solo tecnologiche, ma culturali e organizzative.
Serve formazione mirata, che vada oltre la “AI literacy” di base e insegni a usare i modelli come partner di pensiero;
Servono nuovi KPI, che misurino la capacità di generare insight, alternative e decisioni, non solo efficienza operativa;
Serve una governance dei dati solida, perché se l’AI entra nei processi decisionali, conta quali dati interni può utilizzare e con quale livello di affidabilità.
In Europa questo aspetto è ancora più rilevante, perché la governance dei dati non è solo una buona pratica ma una necessità dettata dal quadro normativo. Tra GDPR e AI Act, la capacità di gestire correttamente i dati non incide solo sulla compliance, ma diventa un fattore competitivo. Le aziende che costruiscono processi solidi oggi saranno più veloci a scalare e a fidarsi dell’AI domani.
Conclusione
L’AI non è un robot che compila documenti, ma un amplificatore delle capacità di pensiero. La vera sfida, per l’Italia e l’Europa, non è se l’AI sostituirà lavori manuali, ma se i professionisti qualificati sapranno sfruttarla per aumentare il proprio impatto. Chi lo farà diventerà più rilevante, chi resterà indietro rischia di scomparire dal tavolo delle decisioni.